Attaccamento traumatico: cosa succede quando la figura di attaccamento spaventa?

…per il bambino il mondo non è un luogo sicuro.
Solomon

Il bambino viene al mondo con un istinto primario: sopravvivere.

Per sopravvivere ha bisogno di attaccarsi, di creare un legame di attaccamento verso una figura più forte e sicura. 

Il sistema di attaccamento rappresenta pertanto un riflesso del bisogno del neonato di essere al sicuro dal pericolo (Solomon; the trauma that has no name).

 

Nell’infanzia umana, la percezione di pericolo è connessa per lo più ai segnali affettivi e alla disponibilità del caregiver piuttosto che al grado di reale pericolo per la propria incolumità fisica.

I bambini infatti nello stadio pre-verbale interiorizzano gli sguardi affettuosi, il sorriso, la dolcezza in una danza diadica con i propri caregiver che rispondono a loro volta con sorrisi, risolini di piacere, rilassamento ed eccitazione.

I neonati sono in grado di percepire la tensione corporea del caregiver, come lo sguardo fisso-assorto (still-face) o la voce irritabile.

Reazioni emotive intense del caregiver, come un tono di voce alto, forte o uno stato ansioso manifesto, possono far entrare in allarme il sistema nervoso ancora immaturo del neonato.

È ormai risaputo che la qualità delle cure genitoriali promuova un attaccamento sicuro o dall’altro versante un attaccamento disorganizzato, quindi spaventato-spaventante.

Migliore sarà stata la nostra esperienza precoce di attaccamento, maggiore sarà la nostra capacità di tollerare e gestire gli stati emotivi negativi durante l’età adulta.

 

Cosa succede quando la figura di attaccamento spaventa?

Con una figura di attaccamento spaventata-spaventante i bambini diventano vittime di una trappola relazionale

Il loro sistema di difesa si attiva per proteggersi dalla figura di attaccamento che spaventa, mentre nello stesso istante il loro sistema di attaccamento li motiva a ottenere il conforto della vicinanza (Liotti).

Il risultato è un attaccamento disorganizzato. 

Paura senza sbocco.

Quando la fonte di pericolo è la figura dell’attaccamento stessa, il corpo e la mente devono trovare un modo per mantenere il legame di attaccamento ( che dovrebbe garantire la sopravvivenza ) e al contempo mobilitare risposte difensive.

Queste due potenti motivazioni innate (attaccamento-difesa) rimangono attive, alternandosi in momenti in cui una domina sull’altra e viceversa. 

Il bambino e successivamente l’adulto rimarrà intrappolato tra queste due spinte opposte, desiderio di vicinanza e timore della vicinanza con riposte difensive quali attacco, fuga, congelamento e sottomissione.

Il risultato sarà né troppo vicini e né troppo lontani.

Troppo vicinanza sembra essere pericolosa ma anche troppa distanza.

 

I clienti traumatizzati possono quindi arrivare in terapia desiderando sollievo alle proprie sofferenze attraverso la cura e quindi attraverso la vicinanza del terapeuta, ma allo stesso tempo provando sfiducia e paura nei confronti della terapia (svalutandola-minimizzandola) o nei confronti del terapeuta stesso.

 

Quello che avviene in questa tipologia di clienti all’interno di un contesto terapeutico viene esteso anche al di fuori del setting terapeutico e quindi nelle relazioni con un partner, un genitore, un figlio/a, un amico/a o un collega.

Spesso desiderano una relazione affettiva e la bramano se avvertono una condizione di solitudine ma, si spaventano, si allarmano, si sentono sfiduciati o addirittura sentono costrizione se qualcuno si dimostra propenso a un rapporto di reale calore e vicinanza.

Imparare a riconoscere queste parti può essere di gran sollievo al caos costantemente percepito.

 

Molte persone purtroppo non sono consapevoli di queste due o più parti, perché dissociate dalla consapevolezza.

La parte attaccamento è diversa dalla parte fuga come dalla parte attacco o dalla parte sottomissione.

La parte attaccamento si mostra quando il cliente desidera che il terapeuta sia affettuoso, connesso e sintonizzato con i suoi bisogni emotivi.

La parte fuga ha invece bisogno di spazio e che il suo bisogno di mantenere le distanze sia accettato dal terapeuta.

La parte attacco invece vuole la prova che il terapeuta non userà i suoi “segreti” contro di lui, quindi testerà più volte la sua pazienza, i suoi confini e la sua capacità di mantenere il setting.

La parte sottomissione cercherà di accondiscendere il terapeuta spesso attivando di nuovo la parte attacco ad agire.

Queste sono solo alcune esemplificazioni di aspetti fenomenologici delle parti di una personalità traumatizzata e quindi dell’attaccamento disorganizzato.

 

Quindi la parte che desidera l’attaccamento, quella che si difende scappando o aggredendo o addirittura sottomettendosi e molte altre ancora in casi più complessi vanno pertanto riconosciute e trattate come entità a sé stanti, con l’obiettivo di integrarle in una personalità più coerente ed organizzata.

 

Vanno considerate pertanto all’interno di un contesto terapeutico specifico, analizzate e reintegrate.

Il “fai da te” in questi casi non è di aiuto.

Ma in questa ottica possiamo comprendere quanto sia doloroso chiedere aiuto.

La sofferenza attiva l’attaccamento e l’attaccamento in questi casi è traumatizzato.

 

di Sara e Katia Santarelli

 

 

Bibliografia: Guarire la frammentazione del sé, Janina Fisher.

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